PIEMONTE- 05-02-2023-- Nel 1991, in quel del Kentucky (Lousiana, USA), degli amici d’infanzia che già in giovanissima età avevano stupido il mondo del punk hardcore anni 80 sotto il nome di “Squirrel Bait” prima e poi finalmente come “Slint”, arriva al culmine il lato più oscuro di quello che ormai è un ricordo lontano del punk, forse l’esatto contrario, ovvero “Spiderland”, il secondo album degli Slint, che in pochissimi anni maturano musicalmente e personalmente, lanciando un grido stridulo nell’agonia dell’apatia depressiva e dando vita o morte a varie correnti musicali che suonano più come nomi sbiaditi invece che ispirazioni.
Si aprono le danze nel Luna Park funereo di “Breadcrumb Trail” dove montagne russe di urla fioche e bisbigli freddi si alternano a riff matematici e “ritornelli post-hardcore”, si resta in bianco e nero nell’horror anni 50 di “Nosferatu Man”, il “vampiro” del XX secolo.
L’apatia rimane anche quando si fa festa nella tesissima “Don Aman” che da poi spazio alla lettera di suicidio che è “Washer”, un pezzo di bellezza sublime, lentissimo e agonizzante, che esplode nel finale del delirio mortale per poi riappacificarsi come se nulla fosse successo.
L’album si conclude con “For Dinner…” che fa da preludio a “Good Morning, Captain”, un pezzo del calibro di “Washer” anche se fare paragoni è impossibile, dato che qui in 8 minuti di riff “math-rock” (passatemi il termine) si guarda indietro alla propria infanzia ormai perduta e si arriva al grido finale, sincero ed emozionante, grido che curiosamente ha costretto il cantante Brian McMahan ad andare all’ospedale, non essendo abituato a uno sforzo vocale del genere.
Questo disco, come disse Steve Albini, è un “Ten Fuckin Stars”, 10/10.
Gianvittorio Bentivoglio