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PIEMONTE- 15-01-2023--Perfezione estetica, influenze dalla musica classica al jazz, utilizzo di nuovi strumenti come il “mellotron”, testi che sembrano più vere e proprie poesie, punto di partenza (e oserei dire nettamente il punto più alto) del cosiddetto “Progressive Rock”, questo e molto altro è il primo album dei King Crimson, datato 1969.

King Crimson che solo da pochi mesi suonavano assieme, con un passato musicale senza troppe pretese, nonostante ciò furono capaci a cambiare letteralmente la storia del rock e non solo, essendo loro ancora oggi oggetto di studio anche nel campo del metal per esempio.

“In The Court Of The Crimson King” è una delle più importanti opere d’arte della musica dello scorso secolo, un album speciale già solo per la copertina diventa poi un trattato che definisce i canoni appunto del progressive, canoni che solo i rinnovati King Crimson stessi e poche altre band riuscirono dopo a non rispettare e a modificarli. 


Ogni brano dell’album è una storia a se, mescolando e creando nuovi spazi e suoni mai ripetuti nel corso dell’ascolto, riuscendo comunque a non risultare fuori luogo e soprattutto non cadendo mai nella leziosità della tecnica, essendo i membri dei King Crimson (presenti e futuri) degli assoluti maestri del proprio strumento. 
Si aprono le danze con “21st Century Schizoid Man”, che fa intuire all’ascoltatore già dai primi secondi che la puntina sta suonando qualcosa di mai visto prima, il pezzo è infatti un delirio distopico molto duro, soprattutto per l’epoca, solo il riff iniziale del pezzo sarà poi di ispirazione a moltissimi artisti anche lontani musicalmente e cronologicamente dai KC, mentre il testo del poeta Sinfield (che solo di testi si occupava, oltre che di “illuminazione”, qualsiasi cosa significhi) è un’angosciante previsione sul millennio ormai vicino.

La band divaga poi in un Free-Jazz molto pesante mostrando con cognizione di causa la loro inarrivabile tecnica e creatività, per poi tornare sui propri passi nel finale. Dopo un inizio del genere, sorprende il secondo pezzo “I Talk To The Wind”, dove il soave flauto di Ian McDonald accompagna la qui delicata voce di Greg Lake, mentre Sinfield scrive di astratti discorsi filosofici con il solito pessimismo tra le linee. “Epitaph” è il testamento di un’intera generazione che profetizza ancora una volta angoscia e distruzione, in un modo che sembra più una composizione classica rispetto a una canzone rock, riuscendo nel finale a toccare le corde dell’animo più profonde con delle urla di dolore senza precedenti.

Nella prima parte di “Moonchild” i KC tirano fuori una delle melodie più enigmatiche e dolci dell’intero rock, per poi svagare in un’improvvisazione dove il silenzio fa da padrone, quasi volendo addormentare l’ascoltatore, silenzio rotto dal giro di batteria del quinto e ultimo pezzo “The Court Of The Crimson King”, una fanfara medievale che ti immerge in un mondo “Dark Fantasy” solo all’apparenza lontano dal nostro, pezzo dove tutta la regalità della band viene fuori per il gran finale.

In pochi mesi tutti i membri originali dei King Crimson lasceranno la band, tranne il chitarrista Robert Fripp (anche il paroliere Sinfield rimarrà qualche anno nei KC), che si caricherà il nome sulle spalle e cambierà le carte nella tavola del rock altre volte, per poi ibernare la band e se stesso nel 1974 dopo il capolavoro che è ”Red”, tornando sulla scena, per l’ennesima volta con dei nuovi membri, con “Discipilne” nel 1981.

Sciolti definitivamente negli anni 2020, i King Crimson lasciano al mondo dell’arte un’eredità incommensurabile e irripetibile.