DOMODOSSOLA- 11-03-2017- Con la conferenza “Quale Allegria...”
del professor Cosimo Stella si è concluso lunedì scorso al liceo Spezia il ciclo di conferenze promosso dai dipartimento di filosofia della scuola ed intitolate “Il più...bello” in cui avevano già presentato i loro interventi i professori Emanuela Fantini, Renato Venturiello e Marcello Landi. Il ciclo di conferenze è stato organizzato in memoria dei docenti del Liceo Spezia scomparsi A.Algeri, D.Gnemmi, C.Pagliano, A.Lista, M.Magrì, A. Tantardini. Il professor Cosimo Stella ha sviluppato la sua conferenza sulla raccolta di liriche di Giuseppe Ungaretti intitolata Allegria, spiegando come il poeta abbia vissuto in prima persona l’esperienza del fronte e della trincea: “Della guerra ha rappresentato la paura, il freddo, la morte, ne ha denunciato l’atroce assurdità. Al tempo stesso, proprio la quotidianità con la morte e la conseguente consapevolezza della propria disperata solitudine sono state le condizioni esistenziali necessarie sulle quali Ungaretti costruirà, attraverso un doloroso percorso di “ascoltazione” interiore, la sua incessante ricerca della poesia pura”.
Ecco il testo della relazione del professor Cosimo Stella:
“L’Allegria è la ristampa, riveduta, corretta, modificata e ampliata dell’Allegria di naufragi pubblicata a Firenze, dall’editore Vallecchi, nel 1919.
In essa, il poeta sviluppa il nucleo originario dei testi pubblicati ne Il porto sepolto del 1916.
Ulteriori modifiche ci sono nell’edizione del 1931, il cui titolo è solo L’Allegria: da questo momento Ungaretti non smette mai di rimaneggiare e modificare il volume, anche nell’edizione del 1936 e nel 1942, quando, a Milano viene pubblicata la stesura finale, intitolata L’ Allegria, di sole 76 liriche. Queste vengono divise in 5 sezioni: le Ultime (15 poesie dell’anteguerra), Il porto sepolto (32 poesie tra il dicembre del 1915 e il novembre 1916) Naufragi (15 poesie del 1917 e 2 precedenti) Girovago (5 poesie del 1918) e Prime (7 poesie del 1919).
A causa della sua ampiezza, delle modifiche e delle aggiunte subite negli anni, L'allegria è un'opera abbastanza varia a livello tematico. Riunisce, infatti, al suo interno versi legati all'esperienza diretta della Prima Guerra Mondiale e poesie che ricordano alcuni momenti della vita privata dell'autore. Si tratta di un itinerario poetico-esistenziale fra i più singolari della nostra letteratura. Ungaretti non ha dovuto fare i conti con il dannunzianesimo, né con l’accademia carducciana, né con ilpascolismo di maniera, né con la stagione crepuscolare; non si è trovato come si sarebbe trovato chiunque in Italia a quel tempo con interessi letterari, a dover operare scelte, a dover fare i conti con l’uno o l’altro dei filoni poetici disponibili.
Il titolo dell'opera esprime la gioia che l'animo umano prova nell'attimo in cui si rende conto di aver scongiurato la morte, drammaticamente contrapposto al dolore per essere uno dei pochi sopravvissuti al "naufragio": questo sentimento si esprime con particolare intensità durante il periodo al fronte, ma attraversa tutta la raccolta e si concretizza nell'ossimoro del titolo. Lo spiega Ungaretti stesso nella Nota introduttiva alla Allegria di naufragi del 1919, spiegando d’aver voluto esprimere:
«quell’esultanza d’un attimo, quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare».
In tal senso, una delle caratteristiche della poesia ungarettiana è quella del vitalismo, dell’ansia di vita che si manifesta anche e soprattutto nelle condizioni più difficili ed estreme, quali una notte in trincea accanto al cadavere di un compagno (Veglia), la percezione della precarietà della vita (Fratelli) o il dolore indicibile per i lutti della guerra (San Martino del Carso).
Altrove, la tensione vitalistica emerge nella riflessione su di sé e sul senso della propria esistenza (I fiumi), nella malinconia dei pochi istanti di pace (Stasera) o nella riflessione sulla morte (Sono una creatura).
L’Allegria obbedisce così ad un proposito di poetica molto importante per Ungaretti: la ricerca, anche attraverso il dolore, del nucleo originario e assoluto dell’identità umana, attraverso cui riscoprire e ricostruire una fratellanza al di là della sofferenza. Metafora di questa ricerca si fa il “porto sepolto”, ovvero un fantomatico porto antico della città di Alessandria che per Ungaretti rappresenta «ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile». Il titolo è fondamentale per comprendere il senso della poetica ungarettiana: il porto è infatti simbolo del viaggio introspettivo del poeta alla ricerca del mistero dell’essere umano.
Il “porto sepolto” di Ungaretti è quindi un'immagine carica di simbolismo, in cui il dato reale si fa tramite per comunicare una verità più remota ed universale. L'aggettivo porta infatti con sé l'idea di un mondo sottostante e precedente: da un lato, esso allude ad un porto di età tolemaica nella città di Alessandria, antecedente alla fondazione da parte di Alessandro Magno che colpisce la fantasia del poeta; dall’altro “sepolto” è simbolo di un mistero che ha in sé «un inesauribile segreto», paragonabile a quello dell’animo umano, su cui il giovane Ungaretti riflette e si interroga mentre è nelle trincee della Prima guerra mondiale.
L'elemento comune a tutti i componimenti, quindi, è soprattutto quello autobiografico: Ungaretti stesso definiva L'allegria un diario: «questo vecchio libro è un diario, l’autore non ha altra ambizione […] se non quella di lasciare una sua bella biografia». Prova ne è la scansione in capitoli dell’opera, come a narrare un romanzo in versi dell’autore dalle prime prove poetiche fino all’esperienza della guerra, che caratterizza contenuti e stile della prima stagione ungarettiana.
Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria D’Egitto l’8 febbraio 1888, (anche se viene registrato all’anagrafe come nato il 10 febbraio), dal momento che i genitori, di origine lucchese, si erano trasferiti in Africa in quanto il padre lavorava come operaio alla costruzione del canale di Suez.
All’età di soli due anni, nel 1980, il poeta subisce il primo grave lutto in famiglia perdendo il padre. Resta la madre. È proprio grazie all’attività di fornaia della madre che Giuseppe può proseguire i suoi studi, frequentando una della scuole più prestigiose di Alessandria, “l’École Suisse Jacot” dove attraverso la lettura del “Mercure de France”, comincia a scoprire il mondo della letteratura. «Mi gettai su Mallarmé, lo lessi con passione ed, è probabile, alla lettera non lo dovevo capire; ma conta poco capire alla lettera la poesia; la sentivo. Mi seduceva con la musica delle sue parole, con il segreto».
In questi anni, si avvicina anche alla politica, grazie a una delle più importanti e durature amicizie della sua vita, che nasce precisamente nel 1906, con il compatriota, a sua volta emigrato, Enrico Pea, scrittore versiliese e organizzatore del circolo anarchico “Baracca rossa”. Quest’ultima, che era un deposito di marmi e legname, dipinto appunto di rosso, diviene sede di incontri per anarchici e socialisti.
Incontro che viene descritto dallo stesso Ungaretti con queste parole: «Conobbi Pea per caso. Faceva parte di un circolo anarchico. […] Aveva fatto costruire la Baracca rossa di cui qua e là parla nei suoi libri, e, al piano superiore, uno stanzone l’aveva destinato a conferenze, assemblee, sproloqui, cospirazioni di sovversivi che ad Alessandria d’Egitto, ch’era allora la città più ospitale del mondo, capitavano d’ogni dove. Eravamo andati anche noi del Circolo ateo a chiederne l’uso. Fu così che si strinse tra Pea e me un’amicizia insolita, fortissima, che decise del destino in arte dell’uno e dell’altro».
Nel 1912, dopo un breve soggiorno al Cairo, lascia l’Egitto per trasferirsi a Parigi dove alloggia al 5, rue des Carmes, pensione vicina all’Università della Sorbona in cui studia per due anni frequentando le lezioni di Letteratura Francese ma senza conseguire la laurea. Per prendere un titolo di studio dovrà attendere fino al 1914, quando rientra in Italia e consegue l’abilitazione all’insegnamento della lingua francese.
Nel viaggio parigino lo precede il vecchio compagno di scuola e amico Moammed Sceab. Parigi rappresenta per entrambi il salto vitale, l’esperienza decisiva per tutti i giovani intellettuali europei; ma non tutti ce la fanno, e qualcuno paga il prezzo più alto: è proprio questo il caso di Sceab, suicida nel 1913, al quale Ungaretti dedicherà una delle sue più famose poesie, In memoria che apriva la raccolta nella prima edizione del Porto sepolto del 1916.
Una lettera scritta dal fronte a Giuseppe Prezzolini fotografa il trauma del suicidio a Parigi dell’amico Sceab, anticipando versi e tematiche disseminate poi in una serie di componimenti successivi a lui dedicati. In questa missiva Ungaretti si rivolge al suo interlocutore esprimendo tutto il suo dolore per la perdita dell’amico e per la condizione che li accomunava: «Posso confidarle qualche cosa di mio. Le dico: “sono uno smarrito.” A che gente appartengo, di dove sono? Senza posto nel mondo, senza prossimo. […] Alessandria d’Egitto, Parigi, Milano, tre tappe, ventisei anni, e il cantuccio di terra per il mio riposo non me lo posso trovare. E chi è che ha vissuto con me per compatirmi? C’è stato nella mia vita Sceab. Ho incontrato Sceab, l’ho accompagnato anni dopo anni. Nulla, non abbiamo mai saputo svelarci nulla. Siamo stati insieme a scuola. […] Smarriti laggiù, sbalestrati a Parigi, il curdo e il lucchese nato all’estero, non ci siamo mai detti nulla. […] S’era cambiato nome. Mohammed Sceab si faceva chiamare Marcel Sceab. A Parigi. Ma la sua patria non era la Francia. […] La disperazione di Sceab non era la mia disperazione. […] Si è ucciso. L’hanno trovato morto, vestito, steso sul letto, sereno, sorrideva. Aveva distrutto tutte le sue carte, manoscritti di novelle e di poesia. […]
Quanto profondo e permanente sia stato l’effetto psicologico della morte di Sceab su Ungaretti si è potuto constatarlo anche a distanza di oltre quarant’anni, in occasione della ricorrenza del sessantesimo compleanno del poeta, il 10 febbraio 1958; quel giorno egli fu invitato a parlare alla radio, e, fra i tanti argomenti che avrebbe potuto scegliere, prese inaspettatamente a parlare di una delle sue più vecchie poesie, In memoria, abbandonandosi con voce emozionata a una rievocazione del suo amico arabo e spiegando il motivo del suo suicidio che è da ricondursi alla sua incapacità di inserirsi in un ambiente e aderire ad una tradizione culturale precisa.
Il periodo parigino (1912-1914) gli permette di entrare in contatto con gli ambienti dell’avanguardia e con artisti esponenti del movimento futurista come Picasso, Braque, De Chirico, Modigliani; ogni giorno fa la conoscenza di un genio. Questi, per citare lo stesso Ungaretti, «furono incontri con un tipo d’arte e con un tipo di moralità che hanno avuto decisiva importanza nella mia formazione generale, e, naturalmente, nella mia poesia». Si lega di sincera amicizia con Apollinaire e con altri poeti francesi, ma anche e soprattutto con Palazzeschi, Soffici e Papini che gli aprono la collaborazione a “Lacerba” (Rivista che nasce a Firenze il 1º gennaio 1913 pubblicata da Attilio Vallecchi), in cui Ungaretti pubblicherà nel 1915 la sua prima poesia, Il paesaggio di Alessandria d’Egitto, compresa poi nella raccolta Il porto sepolto (1916). Già dalle prime prove è evidente l’influsso della cultura francese più che quella delle esperienze crepuscolari, futuriste e vociane. Da Apollinaire Ungaretti eredita un tema che sarà una costante della sua produzione: la concezione della vita come vagabondaggio alla ricerca della quiete dell’anima.
Nel 1914, allo scoppio della guerra, il giovane Ungaretti, all’epoca acceso interventista, rientra in Italia dal soggiorno parigino per arruolarsi volontario.
Dopo alcuni mesi trascorsi a Milano e in Versilia, Ungaretti parte per il Carso nel 19º reggimento di fanteria, dove presterà servizio per tutta la durata del conflitto, tranne una parentesi sul fronte francese della Champagne, nella primavera del 1918.
«Quando ero a Viareggio, prima di andare a Milano, prima che scoppiasse la guerra, ero, come poi a Milano, un interventista. Posso essere un rivoltoso, ma non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare finalmente la guerra».
Ma nell’interventismo di Ungaretti subentra anche un motivo personale, infatti nella stessa lettera scritta a Prezzolini dal fronte leggiamo:
« […] E chi dovrebbe accorgersi che patisco? Chi potrebbe ascoltarmi? Chi può dividere il mio patimento? Sono un estraneo. Dappertutto. E se la guerra mi consacrasse italiano? […] Per tutti gli italiani finalmente una comune passione, una comune certezza, finalmente l’unità d’Italia». Per Ungaretti, dunque, l’unico modo per ritrovare la sua identità italiana e sentirsi finalmente appartenente a una nazione sembra la guerra; lo testimonia anche un’altra lettera a Prezzolini : «Caro Prezzolini, non sono stato bene. E non sto ancora bene. Mi hanno dichiarato inabile ai servizi di guerra. […] Spero di poter fare domanda in gennaio di essere rimandato al mio reggimento. Per me è tutto rischiare. Unica gioia, unico modo di sentirsi in pienezza di vita».
Dunque, Ungaretti stesso affermò di non amare la guerra ma sostenne con fervore, la campagna interventista dell’Italia. Sembrerebbe una contraddizione inesplicabile: ma nella poesia Agonia Ungaretti afferma che è meglio morire per aver creduto in un’idea, per avere speso le proprie forze inseguendo un sogno, che continuare a vivere chiusi in una gabbia, lamentandosi e recriminando senza alcun desiderio, senza alcuna prospettiva sul futuro. E d’altro canto, nella poesia Italia egli definisce se stesso “un grumo di sogni”, e definisce la propria uniforme di soldato una “culla”. Allora, da un lato, c’è il ripudio della guerra come violenza e come dolore, come estrinsecazione di interessi politici ed economici; d’altro canto, però, combattere per l’Italia poté sembrargli un modo per riappropriarsi della propria identità, familiare e in senso lato politica.
Di fronte alla concretezza della guerra, alla vastità dell’orrore, il giovane volontario matura una profonda mutazione.
«Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da
quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro».
Da questa mutazione nascono le liriche della prima raccolta Il Porto Sepolto, pubblicato a Udine nel 1916,in 80 copie, su interessamento di un ufficiale, Ettore Serra, rivista e pubblicata nuovamente nel 1919 con l’aggiunta di nuove liriche e un nuovo titolo: Allegria di naufragi (1919); il nome della raccolta indica la gioia del sopravvissuto alla tempesta, di colui che, avendo vista la morte vicina, sa apprezzare la vita. La lirica che meglio esprime il tema dominante della raccolta è proprio quella intitolata Allegria di naufragi
Si tratta di testi scritti in trincea, su fogli di ogni genere: «A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute,… sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico. Non avevo idea del pubblico, e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per riscuotere applausi, avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com’è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione anche quello di chi, come noi, si fosse trovato in pieno nella mischia».
La Prima guerra mondiale è stata caratterizzata dalla vita in trincea, dove si mangiava una piccola porzione di rancio giornaliera (quando c’era) e dove l’igiene, l’abbigliamento e l’acqua scarseggiavano. Per un soldato la possibilità di superare la guerra senza rimediare una ferita essere ucciso era molto bassa. All’epoca della Grande Guerra l’assistenza medica era infatti ancora rudimentale: non esistevano antibiotici e anche ferite relativamente leggere potevano facilmente evolvere in una mortale setticemia o in tetano. Pertanto la metà dei feriti era destinata a morire. In aggiunta ai danni fisici vi erano quelli psicologici. I soldati sottoposti ad un bombardamento di lunga durata soffrivano spesso di sindrome da stress postraumatico; in Italia per indicare tali persone si usava l’espressione “scemo di guerra”. In definitiva le condizioni sanitarie nelle trincee erano catastrofiche. Molti soldati divennero vittime di malattie infettive, come la dissenteria, il tifo e il colera e la spagnola.
Spesso in guerra seppellire i morti era un lusso che nessuna delle parti belligeranti aveva intenzione di sobbarcarsi. Così i cadaveri rimanevano insepolti, esposti alle intemperie, infestando i luoghi circostanti con il lezzo della putrefazione, che favoriva l’insorgere di malattie infettive.
Su alcuni fronti fu possibile seppellire i morti solo dopo la fine della guerra, quando ormai procedere ad una azione d’identificazione era pressoché impossibile. Ancora oggi, in occasione di scavi lungo le linee del fronte della Prima guerra mondiale vengono rinvenuti i resti inscheletriti dei soldati morti.
Veglia
In questi brevi versi scopriamo tutta l'intensità di quel sentimento di allegria che l'uomo prova nel momento in cui sfugge la morte e che dà il titolo all'intera opera.
Il poeta trascorre la notte accanto al cadavere di un compagno ucciso con il viso sfigurato dal dolore, rivolto verso la luna, con le mani livide e irrigidite. Il cadavere inerte è colto con pochi tratti di nudo realismo. La reazione del poeta è una ribellione disperata al destino di morte, un prorompente sentimento di attaccamento
alla vita: non solo alla propria vita, ma a quella che è un bene comune, un diritto fondamentale di tutti gli uomini. In queste poesia il poeta grida, dunque, la sua avversione agli orrori e alla crudeltà della guerra.
Sdraiato accanto a un commilitone morto il poeta avverte più forte che mai la presenza della morte nella vita umana, ma reagisce scrivendo “lettere piene d'amore” e celebrando il proprio attaccamento alla vita.
Dal punto di vista stilistico, notiamo la tipica tensione verso l'essenzialità da parte di Ungaretti e la brevità del testo, tutto incentrato sull'uso del participio passato e l'assenza della punteggiatura, recuperati dal Futurismo marinettiano. I frequenti “a capo” che isolano le parole rendono la lettura del testo frammentata e tragica, isolando i termini-chiave della poesia: “massacrato” (v. 4), “digrignata” (v. 6), “penetrata” (v. 10), tutti participi passati che indicano il passaggio dall’orrore della guerra alla riflessione intima del poeta (“nel mio silenzio”, v. 11). Emerge l’attenta ricerca ungarettiana sul lessico per comunicare tutta la drammaticità della guerra: “buttato” (v. 2), “massacrato” (v. 4), “digrignata” (v. 6), “congestione” (v. 8).
La poesia ungarettiana, soprattutto in questa fase, si gioca anche su studiati effetti grafici; in questo caso lo spazio bianco che isola i tre versi finali contribuisce a sottolinearne meglio il messaggio, che suona quasi come una sentenza assoluta: anche nell’orrore della guerra, non viene meno l’amore (e l’attaccamento) a ciò che resta della vita.
Sono una creatura
Richiama da vicino Veglia non solo per il tema e l’ambientazione nei disperati mesi della guerra al fronte, ma anche per determinate scelte tecniche tipicamente ungarettiane (i versi spezzati e senza punteggiatura che isolano la “parola nuda” e altamente significativa, l’uso del participio per scandire la progressione sintattica, la ricerca lessicale molto scrupolosa anche in un testo di misura breve o brevissima come questo, l’uso del procedimento analogico).
Il rimando è al monte San Michele del Carso, presso Gorizia, teatro di alcune delle più aspre battaglie della Prima Guerra Mondiale.
Alcuni hanno letto ed interpretato nella “pietra prosciugata” cui Ungaretti si paragona un simbolo dell’immanenza dell’uomo e del suo radicamento nella contingenza della guerra, cui si oppone, in netta antitesi l’immagine acquatica (si pensi al Porto sepolto o a I fiumi), che sta a rappresentare invece l’unione e la comunanza tra il singolo e la cerchia dei suoi simili, affiancata dall’evasione dalla situazione presente che conduce il poeta ad essere come la pietra refrattaria ovvero insensibile, incapace ormai di una qualsiasi reazione; la condizione del poeta è insomma quella di una progressiva disumanizzazione e perdita di sé, tanto che il suo pianto, il suo dolore “non si vede” (v. 11). L’ossimoro finale, che unisce la morte e la vita, si ritrova anche in una lettera di Ungaretti all’amico Giovanni Papini dell’8 luglio 1916, in cui il poeta confida, con lucidità e cupa ironia: «Pensavo: c’è qualcosa di gratuito al mondo, Papini, la vita; c’è una pena che si sconta, vivendo, la morte».
Fratelli
Questa poesia è la versione definitiva di Fratelli, che troviamo nella raccolta L'allegria del 1943: precedentemente, ne Il porto sepolto, il titolo di questo componimento era Soldato. Questi versi sono scritti nella località di Mariano del Friuli, paesino in provincia di Gorizia, a qualche chilometro a nord della linea dell’Isonzo.
Il tema principale è quello della precarietà della vita, costantemente posta di fronte a una sensazione opprimente di morte.
La fragilità umana è espressa dall'autore attraverso il confronto tra individuo e natura: i fratelli commilitoni diventano così “foglie appena nate” (v. 5). Con la definizione di “fratelli” (v. 10) i soldati riacquistano la propria umanità ed intima dignità. Attraverso l'immagine de l'“involontaria rivolta dell'uomo” (vv. 7-8), Ungaretti celebra l'istinto di quest'ultimo alla vita e il desiderio insito nell'animo di ognuno di sfuggire la morte e la guerra. Ungaretti cerca di ritrovare il valore della vita in una parola, "Fratelli" che si usa di rado anche con gli amici più cari e che invece, in quelle ore di mortale pericolo, diventa naturale e spontanea. 'Fratelli' è una parola pronunciata quasi con timore "tremante", bella e fragile come una foglia appena nata, e viene ripetuta più volte, come se ora soltanto se ne comprendesse il significato, come se, nei suoni stessi che la compongono, si nascondesse il segreto dell'amore e della solidarietà umana.
Fratelli è la parola-chiave che apre e chiude il componimento, e a cui si connettono tutti gli altri termini del testo (“parola tremante”, “foglia”, “involontaria rivolta”). Il tema passa così dalla realtà della guerra al senso di fratellanza che, nonostante tutto, prova ad instaurarsi tra i soldati ; la parola “fratelli”, scambiata tra due reggimenti in una notte di guerra e di morte, diventa una forma di ribellione istintiva e spontanea (come se la sofferenza avesse portato a galla l’intima natura di ciascuno) all’assurda tragicità della realtà: la sensazione di paura e di timore, connessa al pericolo di morire da un momento all’altro.
Soldati
Come in molti altri testi de Il porto sepolto prima e de L’Allegria, anche in Soldati ritroviamo alcune caratteristiche fondamentali della poetica e della poesia ungarettiana. Innanzitutto, c’è il senso della tragedia esistenziale del primo conflitto mondiale: i versi sono scritti in trincea presso il bosco di Courton, vicino a Reims. A questo sentimento si associa l’estrema brevità del testo, che sembra quasi una fulminante scoperta della condizione assurda in cui versano i “soldati”, a cui si può facilmente sostituire il termine “uomini”. Soldati infatti può essere letta anche come una riflessione, breve ma assai incisiva, sull'assurdità dell'intera condizione umana e sulla sua intrinseca finitudine, che non può in alcun modo sfuggire al dolore e alla morte. I soldati, paragonati a rade foglie autunnali appese a fatica agli alberi, cadranno inevitabilmente, vittime di una legge universale spietata ed implacabile.
Conclusioni
La data e il luogo indicati in calce danno alla raccolta l’apparente aspetto di un diario di guerra. Diario solo “apparente”, tuttavia, perché in effetti la guerra non costituisce la materia del racconto, piuttosto la condizione dolorosamente necessaria che sollecita una riflessione sulla vita e sulla morte, sulla finitezza dell’esistenza umana che contrasta con tensione verso l’infinito.
«Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini, nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, c’è esaltazione, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana
frequentazione della morte. Viviamo nella contraddizione».
Giuseppe Ungaretti ha vissuto in prima persona l’esperienza del fronte e della trincea. Della guerra ha rappresentato la paura, il freddo, la morte, ne ha denunciato l’atroce assurdità. Al tempo stesso, proprio la quotidianità con la morte e la conseguente consapevolezza della propria disperata solitudine sono state le condizioni esistenziali necessarie sulle quali Ungaretti costruirà, attraverso un doloroso percorso di “ascoltazione” interiore, la sua incessante ricerca della poesia pura”.


